Doctor Who è lo show più triste della televisione.

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Quelle persone laggiù. Non sono mai piccole per me. Non fare supposizioni su quanto lontano mi spingerei per proteggerli, perché sono già andato molto lontano. E a differenza di te, io non spero di raggiungere la Terra Promessa.

Circa due anni fa, trovai Doctor Who su Netflix. Questa è una classica situazione da ‘meglio tardi che mai’. A quel punto, l’idea di Doctor Who (chiamarlo un “franchise” sembra riduttivo) era sempre esistita da 49 anni. Per farla breve, supponendo che non lo sappiate: un alieno che viaggia nel tempo di nome Dottore ha delle avventure. Per farla un po’ meno breve: l’alieno che viaggia nel tempo è anche un immortale muta-forma, e “la morte” è solo una luce splendente che distrae momentaneamente prima della rinascita dell’alieno, con un nuovo corpo, un nuovo atteggiamento e un nuovo senso dello stile.

Su consiglio del mio collega Clark Collis (esperto di Doctor Who e inglese), ho iniziato con le serie “nuova versione” della metà del 2000, saltando i primi decenni di Who-ness. Quindi da un certo punto di vista, niente che io scriva su Doctor Who può davvero essere considerato definitivo. (Per inciso: non c’è nessun grande Doctor Who nerd che non possa essere schiacciato da un Doctor Who nerd ancora più grande, perché l’intera ampiezza e profondità del contenuto narrativo di Doctor Who è oltre quello Biblico. Paul McGann ha notoriamente interpretato il Dottore solo un paio di volte sullo schermo, ma ci sono più programmi radiofonici con McGann che fa il Dottore che episodi di The Wire.)

D’altra parte è facile fare una dichiarazione definitiva: amo lo show. Ho impiegato un paio di mesi per vedere sei stagioni e mezzo di Doctor Who e considero quell’esperienza una degli eventi di pop-culture che mi hanno trasformato nella mia vita. In un certo senso, ero uno che salta sul carro del vincitore. La popolarità dello show ha avuto un’ondata su queste spiagge; ha appena avuto il suo più grande debutto negli Stati Uniti. Che bello! E che strano! Perché Doctor Who è, di gran lunga, lo show più triste della televisione. Intendo “triste” come “malinconia”, triste come “tragico”, triste come “ti lascerà a singhiozzare un casino in più di un’occasione”.

Questa non è necessariamente la reputazione di Doctor Who e certamente non è la reputazione della fantascienza. Generalizzando tantissimo, c’è qualcosa di molto intensamente drammatico, molto sexy nel genere Fantasy: grande personaggio, grandi emozioni, l’eroe epico che rivoluziona radicalmente il panorama del suo mondo epico. La fantascienza ha la reputazione opposta: fredda, distaccata, navi che corrono nello spazio, persone del futuro che hanno rapporti tra loro usando codici sociali che capiamo a mala pena. (INCISO: Ci sono delle eccezioni; confermano la regola. FINE DELL’INCISO)

Ma Doctor Who (almeno, Doctor Who com’è stato reinventato da Russell T. Davies e Steven Moffat e un assortimento di altri scrittori contemporanei) è uno show invaso da emozioni incasinate. La tipica storia di Doctor Who inizia con il Dottore che trova un nuovo amico. A volte quest’amico sta con lui per un po’ di tempo: si chiamano Companion e diventano i coprotagonisti dello show. (Diamine, potreste ribattere che per le prime due stagioni della nuova versione di Doctor Who la protagonista era Billie Piper come la miglior companion di sempre Rose Tyler.) Ma c’è anche l’arco della mini-storia di ogni episodio. Ogni settimana, il Dottore appare in un luogo nuovo, incontra gente nuova, in qualche modo cambia loro la vita… E poi se ne va.

Un modo di vedere questa cosa: il Dottore è amico di tutti! Ma un altro modo di vedere la cosa è: Il Dottore non è mai davvero vicino a qualcuno. E anche quando è vicino a qualcuno, non durerà. Lui li abbandonerà, o loro abbandoneranno lui; o semplicemente invecchieranno e a lui crescerà il viso di un giovane uomo. L’era Davies ha immediatamente enfatizzato la solitudine del Dottore riposizionandolo come l’Ultimo dei Signori del Tempo: non più un intrepido bandito di una cultura elaborata, ma l’ultimo ricordo restante di quella cultura.

Avere un protagonista che è immortale, semi-onnisciente, ed essenzialmente onnipresente dovrebbe creare un personaggio asettico: privo di emozioni, troppo consapevole dell’immensa immensità dell’esistenza umana. C’è un bel momento in un episodio non bello in cui il Dottore improvvisamente porta il suo ultimo Companion in un veloce viaggio attraverso l’intera storia della terra, dalla nascita alla morte. (La vera trama dell’episodio riguarda una villa infestata, nonostante la villa sia in realtà “infestata” da un viaggiatore del tempo e da un mostro che soffre per amore con le ossa all’esterno.) La Companion, Clara, non conosce ancora bene il viaggio nel tempo né il Dottore.

Clara: In un minuto sei nel 1974 a cercare fantasmi, ma tutto ciò che devi fare è aprire gli occhi e parlare a chiunque sia lì. Per te io non sono ancora nata. E per te sono stata morta per cento miliardi di anni. Il mio corpo è là fuori da qualche parte? Nella terra?
Il Dottore: Sì, suppongo di sì.
Clara: Ma siamo qui, a parlare. Quindi io sono un fantasma. Per te, io sono un fantasma. Siamo tutti fantasmi per te. Dobbiamo essere nulla.
Il Dottore: No, no, non siete questo.

Nell’ultima season premiere, il nuovo Dottore aveva una battuta che sembrava richiamare quell’affermazione, in cui diceva all’ultimo mostro che ogni persona è importante: “Non sono mai piccoli per me.” E parte di ciò che rende Doctor Who un’esperienza emotiva incessante è come prende le persone seriamente, come il Dottore sembra concentrarsi allo stesso tempo sullo spazzare via completamente la vita di una persona, mentre si concentra sui pochi minuti che può passare con essa. Lo show funziona allo stesso modo. Al suo meglio, i piccoli momenti sembrano pesare di un’importanza gigantesca, mentre l’immenso arco della trama sembra intimo.

La tensione centrale, credo, è che il Dottore è un personaggio che ricerca delle connessioni ma deve anche tagliare delle connessioni. Ha amici, ma nessuna famiglia; le sue co-star alla fine andranno oltre, abbandonandolo nella sua buffa scatola blu. Come tantissimi eroi, il Dottore salva delle vite, al contrario di tantissimi eroi, il Dottore sembra sempre stranamente consapevole che tutte le vite alla fine termineranno.

Questo è vero in alcuni degli episodi più memorabili dello show, come “The girl in the Fireplace” (un vecchio classico del recente vincitore di Emmy Moffat.) La situazione è semplice, persino stupida: Il Dottore cammina attraverso un caminetto in un’astronave abbandonata e va a finire nella Francia del 1700. Incontra una ragazzina di nome Reinette, le salva la vita, torna nell’astronave. Attraversa di nuovo il caminetto e improvvisamente la ragazzina è una bellissima giovane donna; sono passati anni della sua vita; ed è innamorata del Dottore. Ne segue un sacco di techno-droga e storia eccentrica; la bella giovane donna è Madame de Pompadour, dei robot del futuro hanno bisogno del suo cervello. Alla fine dell’episodio, il Dottore si è innamorato… E Madame de Pompadour è morta. È un atto di equilibrio strano, un vecchio esempio di come a Moffat piaccia fare il giocoliere a volte: Si vede la loro relazione svolgersi essenzialmente in tempo reale, e allo stesso tempo vedi una singola vita umana spazzata via completamente.

Questo è il tipo di malinconia che risuona attraverso Doctor Who: un sensazione che la felicità del Dottore lo condurrà ancora una volta alla solitudine. Non riesco a pensare a nessun altro finale di stagione che mi abbia lasciato a singhiozzare un casino più di “Doomsday”, l’episodio finale Rose-Doctor. (Chiaramente una considerevole parte di internet è d’accordo con me.) L’era Davies ha avuto il suo culmine nell’episodio “Journey’s end” che ha riunito tutti gli amici del Dottore in una scena che si svolge come un’ode al lavoro di squadra e allo stare insieme. (Non solo salvano la Terra; la trascinano.) Ma non molto dopo quella scena, il Dottore è di nuovo solo.

Forse “triste” è la parola sbaglaita per Doctor Who: è uno show che prende una gioia tremenda nella semplice connessione umana, anche quando l’attuale ripetizione fa costantemente perdere tempo a queste connessioni. (Non è mai chiaro se al Dottore piacciano i suoi Companion, o li ami, o abbia solo bisogno che loro lo amino.) Ma è affascinante come uno show che ha come star un immortale, un essere superiore la cui vita non finirà mai, ruota costantemente attorno a dei finali. Gli amici scompaiono, o muoiono; un luogo che ami scompare, rimpiazzato da qualcosa di nuovo; a volte le persone si dimenticano di te, o tu ti dimentichi di loro. Gradualmente, diventi una persona diversa. (La recente season premiere includeva una citazione a “The Girl in the Fireplace”, in particolare al fatto che il Dottore non ricorda “The Girl in the Fireplace” o in qualche modo ha scelto di dimenticarla.

La tensione centrale di gran parte dei thriller d’azione deriva dalla paura che qualcuno possa morire. Ma poiché il Dottore non morirà mai, la tensione centrale di Doctor Who è l’assoluta certezza che le cose cambieranno sicuramente. Ogni cambiamento è come una morte, ma ogni cambiamento è anche come una nascita. Doctor Who non è mai cupo: paragonato alla nostra moda apocalittica attuale, sembra sicuramente allegro.

Ma è sempre consapevole della fragilità della vita umana, di come la singola durata di una vita umana sia come un granello di sabbia in un pianeta deserto in un universo dove ogni pianeta è Tatooine. È c’è una chiarezza guadagnata duramente, una genuina durezza in come il Dottore insiste che ogni granello di sabbia è un universo a sé.

Il Dottore non può mai vivere una vita normale, il che è la sua tragedia. (Iniziate un nuovo episodio di Doctor Who e ricordatevi che presto, quest’anno, l’anno prossimo o sicuramente l’anno dopo, il Dottore e i suoi amici più intimi diranno addio.) Ma mi chiedo anche se sia per questo che più guardi Doctor Who, meno ti ritrovi ad immedesimarti nei Companion, chiunque siano, e più nel Dottore. Dalla nostra prospettiva, il mondo può cambiare, ma noi restiamo sempre gli stessi, mentre gli amici vanno e vengono, mentre ci spostiamo da un posto all’altro. C’è bisogno di qualcun altro che noti quando diventiamo una persona nuova. Forse è per questo che il Dottore ricerca sempre nuovi Companion: così che l’uomo che non cambia mai possa cambiare, ricominciando ogni volta. 

“I tempi cambiano, e così devo fare io… Tutti noi cambiamo. Se ci pensi, tutti noi siamo persone diverse, durante la nostra vita. E questo va bene, è bello! Devi continuare a muoverti, finché riesci a ricordare tutte le persone che sei stato.”

Traduzione a cura di Claudia

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